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Attività e Programmi Internazionali

La disciplina dei restauratori di beni culturali

Pierfrancesco Ungari

Le premesse
Nel luglio 2009 è stata completata la disciplina regolamentare della professione dei restauratori di beni culturali.
Ha avuto quindi inizio, a livello amministrativo, l’attuazione della riforma delineata dagli articoli 182 e 29 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, fin dalla formulazione originaria approvata con il D.Lgs. 42 del 2004.
Già l’articolo 29, comma 6, del Codice, disponendo che soltanto i restauratori di beni culturali sono abilitati ad effettuare interventi di manutenzione e restauro di beni culturali mobili e superfici decorate di beni architettonici (vale a dire, i lavori compresi oggi compresi nelle categorie di opere pubbliche OS-A e OS-B), ha posto una vera e propria riserva professionale. Ed ha quindi reso ineludibile accertare quali soggetti rientrino nell’ambito di esercizio della professione.
Inoltre, tale adempimento è il presupposto indispensabile per definire la riforma del sistema di qualificazione delle imprese esecutrici nelle categorie (tuttora disciplinato, in via transitoria, dal DM 294 del 2000, modificato dal DM 420 del 2001), in attuazione dell’articolo 201 del Codice dei contratti pubblici di cui al D.Lgs. 163 del 2006, e s.m.i. Sembra infatti evidente che la disponibilità di operatori qualificati costituirà anche in futuro il requisito speciale caratterizzante i lavori su beni vincolati.
Per molto tempo, alla generale convinzione che la capacità professionale degli operatori avesse un’importanza strategica per assicurare la qualità degli interventi conservativi, non si sono accompagnati adeguati sforzi per dettare una disciplina organica della professione e della relativa formazione. Anche se si è continuato a ripetere, come una sorta di “mantra”, che l’Italia avrebbe dovuto difendere la posizione di eccellenza storicamente acquisita nella conservazione dei beni culturali secondo corretti criteri storico-critici e scientifici.
Probabilmente, questo è potuto accadere perché l’esigenza di verificare l’idoneità professionale degli operatori è stata risolta all’interno di una prassi che registrava il ricorso pressoché generalizzato ad affidamenti di carattere fiduciario.
L’applicazione delle direttive comunitarie e della legge Merloni ha comportato che anche gli interventi conservativi venissero sottoposti alla disciplina degli appalti pubblici di lavori, ed affidati, di regola, mediante procedure di evidenza pubblica. L’applicazione ai beni culturali di una normativa pensata per obbiettivi diversi, quali la tutela della concorrenza e del mercato (e quindi fonte di numerosi problemi, alcuni dei quali ancora da risolvere) è stata graduale e non è stata ancora pienamente metabolizzata; ma ha avuto almeno il merito di porre in evidenza la questione della definizione di criteri e parametri di idoneità professionale degli operatori.

Passato e presente
Tale questione è stata finalmente affrontata in via generale (cioè, riguardo non soltanto ai lavori pubblici, ma anche a quelli privati), in via di prima applicazione e guardando al passato, dall’articolo 182 del Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Tuttavia, le nuove disposizioni legislative hanno dovuto necessariamente fare i conti con quelle regolamentari preesistenti (soprattutto quelle, assai improvvide, introdotte dal DM 420 del 2001), recependole, e integrandole (in occasione dei due decreti correttivi del Codice concernenti i beni culturali, D.Lgs. 156 del 2006 e 62 del 2008) con altre previsioni, frutto di concezioni diverse e di spinte contrastanti.
Ne deriva una normativa di difficile lettura e problematica dal punto di vista della profondità intenzionale, e quindi della qualità della regolazione.
Di fronte all’alternativa tra il tentare nuovamente di razionalizzare e puntualizzare la normativa primaria, rischiando di rimettere in discussione le certezze acquisite e di rinviare ancora la concreta attuazione della riforma; ed il porre mano all’attuazione delle norme vigenti, cercando di coglierne il senso profondo e di risolvere in via amministrativa ciò che restava inespresso o non del tutto univoco, l’Ufficio Legislativo del MiBAC, in accordo con quello del MIUR, ha scelto questa seconda strada.
L’attuazione dell’articolo 182 prevede due canali di accesso alla qualifica di restauratore di beni culturali: quello diretto, attraverso la dimostrazione, da parte degli interessati, del possesso dei requisiti previsti dal comma 1; e quello indiretto, attraverso l’accesso (basato sul possesso di requisiti, previsti dal comma 1-bis, omogenei rispetto a quelli utili per il conseguimento diretto, ma più limitati) ad una “prova di idoneità”, superata la quale si acquisisce il medesimo status. Per coloro che possiedono requisiti ancora inferiori, oppure conseguono in esito alla prova di idoneità un determinato punteggio (insufficiente al conseguimento della qualifica superiore), è previsto il riconoscimento della qualifica, inferiore, di collaboratore restauratore di beni culturali; la denominazione di detta qualifica, da sempre oggetto di critiche, è stata mantenuta per segnare la continuità con il passato, in quanto ai collaboratori restauratori si riferisce il DM 294 del 2000.
Il sistema è stato concepito per evitare che venisse espulso dal mercato professionale chi finora a buon titolo vi ha operato, garantendo a tutti una collocazione aderente alle conoscenze e capacità dimostrate.
I requisiti previsti dall’articolo 182 sono di due tipi.
Il primo attiene alla formazione istituzionale nel settore, che ha una rilevanza diversa a seconda dell’istituto formatore. I corsi dell’I.C.R. e dell’O.P.D., ormai da anni di durata quadriennale, sono sufficienti al conseguimento diretto della qualifica di restauratore; quelli delle altre scuole, statali o regionali, di durata almeno biennale, devono invece essere integrati dallo svolgimento di attività di restauro qualificata, entro la data del 16 dicembre 2001 e pari ad un periodo doppio della formazione scolare mancante rispetto al quadriennio. Invece, ai fini dell’accesso alla prova di idoneità, è necessario possedere i requisiti utili al conseguimento della qualifica di collaboratore restauratore (tra cui, lo svolgimento per quattro anni prima del 1° maggio 2004 di attività di restauro, non ulteriormente qualificata ed autocertificabile) ed aver svolto ulteriore attività qualificata per un triennio alla data del 30 giugno 2007, oppure aver conseguito il diploma di una scuola di restauro almeno biennale, il diploma triennale in restauro presso un’accademia di belle arti o la laurea specialistica in conservazione e restauro, purché con iscrizione ai relativi corsi prima del 31 gennaio 2006.
Il secondo riguarda, appunto, lo svolgimento di un’attività di restauro qualificata, vale a dire connotata dalla “responsabilità diretta nella gestione tecnica dell’intervento”.
Le modalità di attuazione della disciplina transitoria, ed in particolare il modo in cui l’attività deve essere attestata dalle soprintendenze, dagli altri istituti statali di tutela e (per i beni su cui esercitano le competenze di tutela trasferite alle regioni) dagli organi regionali, sono stati precisati mediante le linee guida diramate con circolare del Segretariato Generale n. 35 del 2009, pubblicate sul sito istituzionale del MiBAC all’inizio del mese di agosto (poi integrate dagli addendum diramati con circolari nn. 36 e 39 del 2009).
E’ seguita, alla fine di settembre, la pubblicazione del bando e l’attivazione sul sito della domanda che ciascun interessato sarà tenuto a compilare ed a trasmettere in via telematica, unitamente alla documentazione utile, per ottenere le necessarie attestazioni ed ottenere la valutazione della propria posizione professionale, ai fini del riconoscimento della qualifica o dell’accesso alla prova di idoneità.
A disciplinare la prova di idoneità era già intervenuto il DM 53 del 2009, che articola la valutazione in una prima prova, unica per tutti i candidati e da svolgersi contestualmente a Roma, basata su 100 domande a risposta multipla, comprendenti tutte le materie la cui conoscenza è necessaria all’esercizio della professione, con una netta dominanza della teoria e della pratica del restauro (50); superata questa, si passa ad una prova teorico-applicativa, consistente nell’elaborazione di un progetto di intervento conservativo; e poi ad una prova pratica, consistente nella simulazione di un intervento conservativo; ciascun candidato potrà scegliere nella domanda l’ambito specifico di competenza (tele e tavole, materiali lapidei, carta, strumenti musicali o scientifici, etc.) in relazione al quale sostenere dette due ultime prove, che quindi si svolgeranno a cura di sottocommissioni distinte ed in tempi e luoghi diversi, a seconda delle esigenze organizzative e del numero degli interessati.
In relazione alla prova di idoneità, si prevede di dover superare almeno due tipi di difficoltà.
Anzitutto, quelle logistiche, legate al numero dei partecipanti, che potrebbe essere più di 30.000, ed alle esigenze di contestualità della prima prova, fondamentale per assicurare trasparenza ed imparzialità alla valutazione.
Di conseguenza, poi, quelle connesse alla predisposizione delle domande a risposta multipla; che non dovranno essere nozionistiche bensì aderenti alle concrete problematiche lavorative, né troppo difficili, né troppo generiche o basilari, così da valorizzare sia la preparazione maturata nelle scuole dai più giovani, sia l’esperienza accumulata sul campo dagli operatori più esperti. E’ il caso di precisare che, a differenza di quanto comunemente avviene oggi nei concorsi interni e nelle riqualificazioni, non avrebbe alcun senso predeterminare e divulgare un insieme di domande, così da trasformare una verifica di idoneità in un mero esercizio mnemonico.
Il risultato ultimo dell’insieme delle procedure di valutazione sarà il riconoscimento delle qualifiche e l’inserimento negli elenchi, rispettivamente, dei restauratori e dei collaboratori restauratori, a seconda delle conoscenze e capacità che ciascun interessato – sulla base dei titoli, o anche attraverso la prova di idoneità - avrà dimostrato di possedere.
Un passo importante, per quella che può ormai definirsi una professione “riconosciuta”.

Presente e futuro
L’altro aspetto della riforma riguarda la formazione del futuro, per la quale l’articolo 29, commi 7, 8, 9, prevede la definizione regolamentare, rispettivamente, degli ambiti di competenza degli operatori, e dei criteri e livelli di qualità cui deve adeguarsi la loro formazione. Quest’ultima, secondo un modello organizzativo “aperto”, potrà essere svolta da chiunque intenda proporsi per la progettazione e la realizzazione di corsi conformi a dette modalità.
Una conquista, già sancita dal citato comma 9, è l’equiparazione a tutti gli effetti del diploma, abilitante alla professione, alla laurea magistrale; fermo restando che, nell’ipotesi in cui il corso sia realizzato da un università, il titolo sarà una laurea in senso stretto. E’ in via di definizione il DM per il riconoscimento di un’apposita classe di laurea magistrale a ciclo unico (fino ad ora, anche i corsi universitari orientati verso l’attuazione anticipata dei contenuti della nuova disciplina regolamentare, hanno dovuto fare riferimento alle classi esistenti – L/41, L/43, LS/12 e LM/11 – concepite per obbiettivi formativi diversi).
Il nuovo sistema formativo, a lungo auspicato (tanto che, nella lunga attesa dei regolamenti attuativi, alcune istituzioni hanno sospeso l’attivazione di nuovi cicli, mentre altre hanno attivato corsi in via sperimentale o con riserva di adeguamento), potrebbe concretizzarsi fin dal prossimo autunno.
Infatti, con il DM 86 del 2009, sono stati definiti gli ambiti di competenza dei restauratori e (con rinvio a successivi approfondimenti, nel rispetto delle potestà normative spettanti alle regioni, sulla base di accordi in sede di Conferenza Stato-regioni, secondo quanto previsto dall’articolo 29, comma 10, del Codice) delineati quelli delle altre figure ausiliarie e complementari che intervengono nelle attività conservative. In particolare, per i restauratori, l’Allegato del regolamento concretizza la previsione dell’articolo 29, comma 6, indicando analiticamente – con riferimento ai singoli momenti qualificanti delle fasi della sequenza operativa: esame e valutazione del bene, progettazione, esecuzione dell’intervento, documentazione e divulgazione - le attività oggetto di riserva e quelle che vedono il restauratore collaborare con altre figure complementari.
Contestualmente, con il DM 87 del 2009, sono state definiti i requisiti minimi organizzativi e funzionali dei nuovi corsi di formazione dei restauratori, al cui rispetto, d’ora in poi (come ricorda lo stesso articolo 29, al comma 9-bis), è subordinato il conseguimento della qualifica professionale.
Si tratta di una serie di criteri e standard che dovrebbero assicurare l’eccellenza della formazione; limitandoci a quelli più significativi: 300 crediti formativi (equivalenti, quanto alla corrispondenza con le ore di insegnamento, a quelli universitari); almeno il 50 % delle ore di insegnamento dedicato alle attività tecnico didattiche di laboratorio e di cantiere (il che significa, in sostanza, che nel quinquennio i corsi dovranno prevedere oltre 7.000 ore complessive); per tali attività, gli insegnati dovranno essere scelti necessariamente tra restauratori, i quali possano vantare, oltre alla qualifica (secondo la disciplina dell’articolo 182), un’attività di insegnamento o di restauro protratta nel tempo; il rapporto tra detti insegnanti, costantemente presenti durante le attività, e gli allievi non potrà essere inferiore di 1 a 5; infine, una percentuale non inferiore all’80% dei manufatti oggetto di detti insegnamenti dovrà essere costituito da beni culturali vincolati (il che comporterà la necessità di definire accordi con le autorità preposte alla tutela dei beni).
Viene anche previsto un esame finale, composto da una prova pratica ed una prova teorico-metodologica, da sostenere di fronte ad una commissione di cui fanno parte anche restauratori e professori universitari, di nomina ministeriale.
La formazione sarà finalizzata al conseguimento di una qualifica che, così come unica è quella conseguibile nella fase transitoria, resterà una qualifica professionale unica: i nuovi diplomati entreranno di diritto negli stessi elenchi. Ma largo spazio potrà essere dato anche allo sviluppo di indirizzi ed ambiti specialistici.
La verifica del rispetto dei predetti criteri e standard, nei confronti di tutti i corsi, viene demandata ad una commissione mista ministeriale, che dovrà anche formalmente accreditare le istituzioni formative non statali ed i loro corsi. Se ne prevede la costituzione nelle prossime settimane.
Ci si aspetta che, risultando necessari cospicui investimenti in spazi, attrezzature e risorse umane, nascano o si adeguino alcune (non moltissime) istituzioni formative di eccellenza; meglio, se capaci di integrare la tradizione delle scuole di alta formazione statale, con i saperi universitari e con la progettualità e la capacità operativa nella conservazione e nella valorizzazione dei beni culturali dimostrata da alcuni enti pubblici territoriali ed istituzioni non lucrative.
Poiché l’articolo 9, comma 9-bis, stabilisce che dall’entrata in vigore dei regolamenti la qualifica di restauratore si acquisisce soltanto in conformità alla nuova disciplina, occorrerà definire formalmente la posizione delle esperienze formative in corso, che siano state avviate anticipando l’attuazione dell’attesa disciplina regolamentare. La situazione più chiara è quella del Corso Interfacoltà organizzato, in via sperimentale, dalla Fondazione La Venaria Reale in convenzione con l’Università di Torino; per il primo ciclo formativo, l’articolo 182, comma 2, del Codice prevede, un’autorizzazione specifica rilasciata con decreto ministeriale. Anche altre iniziative risultano aver tenuto conto dei contenuti del DM 87 del 2009, pressoché interamente definiti a livello tecnico anni fa e quindi già noti agli addetti ai lavori; a quanto consta, è, in tutto o in parte, il caso dei corsi organizzati dalle Università di Urbino, Palermo e Napoli, oltre che – per il restauro della carta – del corso organizzato dalla Regione Friuli Venezia-Giulia a Villa Manin di Passariano e del corso di laurea magistrale organizzato dall’Istituto centrale per il restauro e la conservazione del patrimonio archivistico e librario con l’Università di Tor Vergata.
Peraltro, le università continueranno a formare gli specialisti (esperti scientifici e tecnologi della conservazione, oltre alle figure più tradizionali, quali storici dell’arte, archeologi, architetti, etnoantropologi, paleontologi, chimici, fisici, biologi, geologi) che partecipano alle attività conservative, svolgendo attività di indirizzo o complementari rispetto a quelle dei restauratori, indispensabili per l’esercizio delle funzioni di tutela ed il buon esito delle attività conservative. E si svilupperanno, secondo la disciplina che verrà dettata dalle regioni, le più numerose istituzioni formative destinate alle figure professionali ausiliari: secondo le definizioni date dal DM 86 del 2009, tecnico del restauro di beni culturali (qualifica che corrisponde a quella di collaboratore restauratore) e tecnico del restauro di beni culturali con competenze settoriali.

* Ufficio Legislativo MiBAC

** Oggi che la disciplina normativa può dirsi compiuta, sperando che l’inevitabile contenzioso non impedisca di darle attuazione, un ringraziamento va a tutti coloro i quali, a diverso titolo (come rappresentanti dell’ARI e dell’ARAB., professori del CUN, funzionari e consulenti del MiUR., delle regioni e degli enti locali, esponenti delle OO.SS. e delle associazioni imprenditoriali, ovvero singoli operatori), nel corso degli anni si sono confrontati con i funzionari ed i consulenti del MiBAC su questi temi, permettendoci di avere una conoscenza dei problemi da affrontare e delle possibili soluzioni. Senza il loro prezioso contributo non sarebbe stato possibile conseguire alcun obbiettivo. Un mio ringraziamento particolare va a Maura Borelli, senza la quale non avrei nemmeno pensato di potermi cimentare in un compito così impegnativo.